Forse non riusciamo ancora a valutare del tutto l’entità dei danni provocati dall’epidemia di COVID-19, ma altrettanto oscuri sono i cambiamenti e le opportunità che essa genera nella società italiana. Ho individuato alcuni ambiti dove avremmo forse la possibilità di cambiarli in meglio, correggendo alcuni errori che sono apparsi molto chiari in questo frangente:
1. Da troppi anni l’economia e la finanza sono la prevalente preoccupazione dei Governi italiani e tutto viene sacrificato nel loro nome. Grandi vittime sono stati la salute pubblica e il Servizio Sanitario Nazionale, cui sono stati progressivamente ridotti gli investimenti e l’attenzione fino alla stremo. I tagli lineari che sono stati apportati hanno provocato enormi guasti, perché hanno penalizzato la parte migliore del sistema senza peraltro influire sugli sprechi, le inefficienze e gli illeciti. Ci siamo addirittura trovati con un numero di medici insufficiente perché non si è posto rimedio alla combinazione di due fattori concomitanti: esodo massivo di professionisti in servizio, insufficiente numero di specialisti preparati dalle Università. Disinteresse che si riflette anche nella progressiva riduzione degli Ospedali pubblici e nella debolezza della medicina territoriale dove da anni si sarebbe dovuto provvedere, con strutture complesse di riferimento (quali Case della Salute, POT, etc.), a offrire nuovi servizi sanitari, specie ai malati cronici che oggi costituiscono la maggioranza della patologia. Disattenzione che ha fatto smantellare anche il Centro per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie Infettive (CCM) costituito con legge 138/2004 presso il Ministero della Salute e deputato alla continua vigilanza sulle epidemie del mondo, alla valutazione dei rischi che tali epidemie colpiscano anche l’Italia, alla preparazione dei piani di contrasto prima che la calamità si manifesti (vedi Donato Greco, Quotidiano Sanità, 11 maggio 2020). Il CCM è stato infatti abbandonato nel 2012 in quanto forse ritenuto una spesa eliminabile e così ci siamo trovati impreparati nella bufera senza sapere che fare. Alla luce di questi fatti mi auguro che il Governo corregga i suoi errori, ponendo tra le sue priorità la salute e il benessere dei cittadini oltre all’economia e alla finanza. Proteggere la salute e il benessere significa dedicare a questi settori risorse economiche adeguate, ma anche studio e pensiero, ponendo attenzione ai mutevoli bisogni della popolazione e del personale sanitario che per anni è stato trascurato. Dobbiamo ripensare all’organizzazione della sanità, che è quasi del tutto nelle mani delle Regioni e della politica regionale, affidata a manager di nomina politica selezionati più sull’appartenenza che sui meriti e più attenti al bilancio delle cosiddette Aziende sanitarie che alla salute degli utenti. Bisogna ridefinire i ruoli della sanità pubblica e di quella privata accreditata, bisogna infine che la sanità pubblica venga liberata da una serie di vincoli che la stanno soffocando. Più in generale, forse, l’Italia deve chiedersi se vuole continuare ad avere un Servizio Sanitario Nazionale o vuole un sistema diverso. Coerenza vuole che, se la scelta è la prima, si eviti di continuare ad attuare provvedimenti che la mettono a rischio e ne compromettono il funzionamento. Bisogna uscire dall’ambiguità tormentosa dell’attribuzione dei poteri alle Regioni e allo Stato. La pandemia di COVID-19 ha aperto il sipario su un penoso spettacolo di conflitti istituzionali che non possiamo più tollerare e che era prevedibile, data l’ambiguità del Titolo V della Costituzione e dei rimaneggiamenti scritti e non scritti che ne sono seguiti. Una lotta per il potere che ha generato sfiducia e incertezza nella popolazione e discredito alla Nazione. E’ accettabile che in sanità le Regioni abbiano poteri amministrativi, ma questo non significa frazionare la Nazione e contrapporsi ad altri poteri dello Stato per ragioni più politiche che tecniche. Speravamo che col tempo le Regioni acquisissero maggiori capacità e potessero garantire una migliore utilizzazione delle risorse. Ciò è avvenuto in parte, ma bisogna ammettere che le Regioni globalmente non hanno fatto bene, pur consumando una grande quantità di denaro. Il decentramento previsto dal Titolo V della Costituzione (detto anche federalismo o devoluzione) non ha sortito il successo previsto dai Costituenti per almeno quattro motivi:
1. è un impossibile compromesso tra coloro che non volevano il federalismo e coloro che lo invocavano come il primo passo verso la secessione di alcune Regioni;
2. le Regioni hanno sviluppato un neocentralismo burocratico ossessionante per cui oggi esse in sanità gestiscono molti aspetti del sistema fin nei particolari; la gestione è pesantemente influenzata dalla politica che condiziona senza eccezioni gli apparati amministrativi e tecnici con grave nocumento al Servizio Sanitario;
3. gli spazi occupati dalle Regioni nei confronti dello Stato centrale continuano ad allargarsi a causa della crescente debolezza di quest’ultimo;
4. i costi per il mantenimento delle Regioni sono altissimi, il conflitto perenne tra Regioni e Stato centrale, tra le Regioni tra loro, tra Regioni e Comuni, ha generato non solo disordine e sfiducia, ma ancor peggio ha riacceso antichi e mai sopiti antagonismi tra le aree del Paese, che sempre meno si sente Nazione e sempre più assiste a vincenti egoismi localistici, a divisioni e violenze verbali tra Italiani di aree diverse. Ben triste spettacolo per tutti coloro che sanno come la forza di una Nazione poggi sull’armonia e lo spirito unitario dei suoi cittadini. Nulla mi deprime di più che sentire declamare presunte eccellenze o eccellenti modelli di alcune aree avverso le altre o di assistere alle polemiche Nord-Sud e così via, conflitti e polemiche che sono segno di poca consapevolezza della difficile realtà in cui si muove tutto il Paese e che denunciano grande immaturità da parte di coloro che li determinano o li condividono. Forse vale la pena di ripensare all’organizzazione dello Stato italiano in modo da porre termine a questa pericolosa situazione, liberando in particolare la sanità dall’invadenza della politica.
2. La società italiana è cresciuta nell’illusione di avere tanti diritti e pochi doveri. Il lavoro in particolare è diventato un diritto, ma è sbiadito il dovere di rispettare i diritti dei datori di lavoro. Un sindacalismo poco avveduto ci ha fatto dimenticare che è l’impresa privata che genera ricchezza e crea posti di lavoro. Se vogliamo un lavoro e i servizi sociali, la sanità, scuola, pensioni, ammortizzatori sociali, ricerca scientifica, tutela dell’ambiente, dobbiamo rispettare l’impresa privata sana. Ciò non significa mortificare i diritti fondamentali dei lavoratori, ma bilanciarli con quelli dei datori di lavoro. Oggi scopriamo che gli investimenti privati sono diminuiti, che molte imprese rinunciano o dislocano, che siamo in recessione. Nessuno dei Governi del dopoguerra ha redatto un piano industriale, un piano agricolo, un piano per il turismo. Questa imprevidenza ci ha trascinato in errori che oggi paghiamo a caro prezzo. Non si può basare gran parte della ricchezza nazionale sul turismo di massa invece che sull’impresa manifatturiera e sull’agricoltura. Molti si sono illusi di poter vivere di turismo, abbandonando il lavoro dei campi e delle imprese manifatturiere, anche se strategiche. Oggi ci rendiamo conto che abbiamo sbagliato, infatti basta poco perché quei milioni di turisti che affollano i nostri territori spariscano e migrino altrove lasciandoci nelle peste. In compenso abbiamo reso potente e indispensabile la Cina perché ha puntato sull’impresa manifatturiera a poco prezzo e ha conquistato il mondo. Ci siamo illusi che facendo lavorare i Cinesi potevamo guadagnare e vivere bene con poca fatica. All’improvviso ci siamo trovati alla mercè dei Cinesi che oggi possono condizionare il mondo occidentale proprio grazie alla loro capacità produttiva a basso costo. Abbiamo abbracciato la globalizzazione senza capire che gettavamo al vento le nostre eccellenze, le nostre tradizioni, il prodotto italiano tanto apprezzato nel mondo e sorgente di ricchezza nazionale. Oggi abbiamo prodotti stranieri di bassa qualità sugli scaffali dei nostri supermercati e dei nostri negozi, prodotti che costano poco, ma valgono ancor meno e durano poco, mentre le nostre eccellenze spariscono progressivamente. L’Italia tende così a diventare un punto vendita di aziende straniere e a perdere la sua specificità.
In conclusione, non ho la pretesa di aver centrato bene i problemi italiani emersi con l’epidemia di COVID-19, ma solo cercato di trasmettervi la necessità di trarre insegnamento da questi eventi calamitosi per correggere alcune storture che l’Italia e anche l’Unione Europea hanno commesso. Abbiamo bisogno di meno politica e più saggezza, dobbiamo far crescere il livello culturale e morale della classe dirigente dello Stato, ma per fare questo dobbiamo far ragionare gli Italiani e far rinascere in loro i grandi valori che nel tempo si sono affievoliti.